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Nonno Arturo e papà Ugo col racconto del Natale ‘44

Il nostro primo bellissimo albero di Natale di quel lontano 1944 

È arrivato un altro Natale! Il negozio si colora di rosso con l’arrivo di Poinsettie, Ilex, Amaryllis, mele…è tutto un fermento! Soprattutto, entra in negozio il profumo del Natale, il profumo di abete! Quando li vedo scaricare dal furgone – così allineati come soldati sull’attenti – il cuore mi si riempie di una gioia piena di ricordi d’infanzia! Ma, allora, dico: «È davvero Natale! Siete bellissimi!». Sorrido inebriata, non posso non toccarli, accarezzarli, come un affetto atteso da un anno!

Slacciati dalle corde che li tengono stretti, strattonandoli si aprono in cento rami.

Sembrano uomini – arrivati dopo un lungo viaggio – pronti ad abbracciarti, una volta liberati da pesanti soprabiti innevati.

Da quando sono nata, questo rito si ripete come per magia nel negozio di famiglia che abbiamo a Salerno.

Mio padre, Ugo Pellecchia, con le sue mani rugose di lavoro, li sistema con cura, come se fossero figli suoi, li ha scelti in vivaio uno per uno, nei suoi occhi però non c’è il mio stesso entusiasmo infantile, è qualcosa di diverso, di struggente, un rispetto, una riverenza…

Io so il perché, ma aspetto quel “suo” racconto di Natale, che per l’ennesima volta dirà in negozio a un cliente, mentre si tratta di scegliere per decidere un acquisto.

«Dotto’, lei lo sa, da noi in Sud Italia l’albero di Natale non esisteva! C’era solo il Presepe e quanti ne abbiamo costruiti! Nel nostro negozio, durante il periodo precedente il Natale vendevamo fiori e presepi!»

«Il negozio di mio padre Arturo» ­­prosegue nel suo racconto mio padre Ugo «era stato aperto nel 1919 a Nocera Inferiore, paese campano ai piedi del Vesuvio. Nel 1944 gli alleati erano stanziati nelle caserme Libroia e Tofano. Lo sbarco ”Avalanche” era avvenuto il 9 settembre 1943 nel golfo di Salerno, operazione militare di fondamentale importanza nel processo di liberazione del territorio italiano nazifascista. L’intento alleato, come tutti sanno, era di allontanare i tedeschi dall’Italia meridionale, per raggiungere Napoli e poi liberare Roma. Il negozio di mio padre Arturo a Nocera era a due passi dalle caserme, quindi c’era un via vai di militari».

«Io, Ugo, avevo 13 anni in quella vigilia di Natale del 1944 e ricordo che avvenne una cosa inimmaginabile. Entrarono in negozio due “Miss, crocerossine americane” bellissime, bionde, in divisa, sembravano due angeli! Chiesero a mio padre Arturo se poteva seguirle in caserma perché avevano bisogno di un giardiniere o fiorista per aiutarle a sballare e sistemare i Christmas tree».

«Mio padre non se lo fece ripetere due volte», narra ancora con precisione Ugo e specifica «chiamò i miei due fratelli più grandi, Enzo e Antonio, per farsi aiutare, poi guardando i miei occhi supplichevoli disse “Vabbuo’ Ugarie’, vieni pure tu cu’nuie” (Va bene Ugarello, vieni anche tu con noi). Noi tre figli non avevamo capito bene quella parola straniera "Christmas tree", ma mio padre sì; si parlava di Abies picea excelsa. Entrati in caserma, vedemmo in sacchi di iuta degli alberi imballati. Dovevamo aprirli e piantarli nei vasi. Da mio padre Arturo, con i miei fratelli forti come tori, gli alberi furono issati. Alti, erano alti, e tutti stemmo col naso all’insù per guardare il verde e il cielo che si incontravano! Gli americani battevano le mani, le miss anche, noi non capivamo, pensavamo che il lavoro fosse finito, invece le miss prelevarono da scatoloni fili di luci americane e palline americane per decorare l’abete. Era la prima volta che vedevamo questo, li aiutammo, poi l’albero fu completato. Le miss accesero le luci, l’Abies picea si illuminò come d’incanto. Gli americani applaudirono di nuovo, mio padre, i miei fratelli, io, no. Rimanemmo senza parole, stupiti, come se stessimo sognando. Mio padre sussurrò il nome di mammà, morta già da molti anni “Olimpia mia…” (gli adulti quando sono felici sono contemporaneamente tristi). Io ero “guaglione” (ragazzo), ma la mia vita, la mia realtà erano la guerra, terribile, i treni merci che portavano morti ammucchiati, morti, morti dappertutto. Ogni giorno il pane, bisognava procurare il pane giornaliero. La mia sensazione per tutti quegli anni era un senso di freddezza enorme, lo capii solo allora, quel freddo che, come per magia, fu riscaldato guardando le luci del mio primo albero di Natale. Quel dicembre del 1944 fu memorabile, papà Arturo a casa, finalmente parlava del nostro futuro. “Guaglioni (ragazzi) l’anno prossimo al negozio venderemo anche noi gli alberi di Natale con le palline e le luci, come gli americani! Il Presepe e l’albero di Natale!”. Così mio padre Arturo si mise subito alla ricerca del prodotto, i primi Abies picea excelsa alla ditta Pellecchia furono forniti dalla famiglia Delle Cave di Napoli, che utilizzava abeti da sempre, ma solo per allestimento in ville e parchi».

Il racconto di mio padre Ugo, per me tanto struggente, si conclude qui ed egli, oggi più che ieri, con un sospiro vi appone un sigillo: «Eh sì, dotto’, da allora sono passati più di sessant’anni! Dunque, vi mando l’albero a casa?... Benissimo! Ossequi alla signora…» e dicendo questa parola tanto napoletana, tanto latina, accenna un leggero inchino… Guardandolo sorrido. Papà, sei uno degli ultimi galantuomini!

Così anche quest’anno arriverà il 24 sera e, come ogni anno, abbassata la saracinesca dopo l’ultimo cliente, torneremo tutti a casa dove mia madre Filomena avrà preparato il nostro leggero, ma gustosissimo cenone: spaghetti “capperi, acciughe e olive”, baccalà all’insalata, cavolfiore, broccoli di Natale, dessert con i classici dolci struffoli e zeppole.

Ogni anno crolleremo dal sonno prima della mezzanotte, Gesù bambino sono anni, spero ci perdoni di averlo fatto nascere sempre nell’ora sbagliata! L’ultima luce che spengo, però, è quella dell’albero di Natale.

Il nostro bellissimo albero di Natale di quel lontano 1944.

Buon Natale a voi tutti!

Anny Pellecchia

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Copyright © Ugo Pellecchia & Il Floricultore n. 12, Dicembre 2008

 

 

 


 
Natale. La corona dell’Avvento e il senso dell’eternità

Le quattro candele disposte sul profumato abete simboleggiano i Profeti, Betlemme, i Pastori e gli Angeli e vengono accese una ogni domenica.
L’ultima, il 25 dicembre, giorno della nascita del Bambin Gesù, porterà luce e speranza in tutte le nostre vite.

Come faccio a meravigliarmi ogni volta dell’arrivo del Natale?
Eppure il 6 gennaio scorso, sopravvissuta al tour de force del negozio, ero sicura di una lunga tregua… invece ecco di nuovo la città (Salerno – NdR) illuminata con bellissime luci d’artista!
Sul calendario l’otto “rosso” annuncia l’Immacolata Concezione, la quale apre le festività natalizie seguita a ruota dai suoi santi preferiti: Santa Lucia, ad un “passo di gallina”, e Sant’Aniello, ad un “passo di vitello” dal Natale!
Ma del resto, come la circolarità di una ghirlanda, dicembre chiude l’anno e così il ripetersi del tempo ci dà un senso di eternità.
È proprio la corona dell’Avvento il primo lavoro che si prepara nei negozi di fiori. La ghirlanda è un inno alla Natura che riprende la vita.
Le quattro candele disposte sul profumato abete simboleggiano i Profeti, Betlemme, i Pastori e gli Angeli e vengono accese una ogni domenica.
L’ultima, il 25 dicembre, giorno della nascita del Bambin Gesù, porterà luce e speranza in tutte le nostre vite.
La corona dell’Avvento è davvero un lavoro molto emozionante, poetico; ai bambini viene dato il compito dell’accensione, ma anche un ospite caro può avere quest’onore.
Solo da qualche decennio l’Italia, così come tanti altri Paesi, ha introdotto con entusiasmo questa tradizione che viene dal Nord Europa, e più precisamente dalla Scandinavia.
Certo l’uso delle ghirlande celebrative e decorative risale a tempi molto lontani.
In Persia la ghirlanda era chiamata diadema che significa “qualcosa che è legato intorno” ed era formata da strisce di stoffa che adornavano il capo dei componenti della famiglia reale e simboleggiava per l’appunto regalità.
Nell’antica Grecia corone di alloro (Laurus nobilis), simbolo di grande onorificenza, venivano poste sulle teste dei più meritevoli che divenivano così “laureati”; da qui prende il nome la nostra laurea ossia il titolo accademico rilasciato al termine degli studi universitari.
Per i Romani le ghirlande erano simboli di potere, rappresentate anche sottoforma di gioielli e metalli preziosi, nasceva così la corona reale. “Corona” è infatti il sostantivo latino che significa ornamento o ghirlanda.
Nel Medioevo anche il popolo iniziò a creare corone celebrative per onorare le festività religiose.
Usare le piante era una scelta naturale considerato che quasi tutte le culture antiche veneravano gli alberi come veicoli di energia divina.
Ancora una volta il Nord Europa ci regala lavori natalizi bellissimi della loro tradizione, ghirlande di agrifoglio e vischio venivano accolte in casa per dare riparo alle divinità silvane contro il freddo dell’inverno.
Per quanto mi riguarda la prima corona che ricordo nella mia vita è stata una corona funebre preparata in negozio da mio padre!
I lavori funebri in Italia hanno una spettacolarità unica.
Quella corona era davvero enorme e la sua austerità mi faceva sentire piccola, piccola… solo dopo molti anni capii il vero significato: il cerchio simboleggia l’eternità e l’unità.
La corona dell’Avvento, tradizione di altre genti, entra oggi nelle nostre case, così come entrò l’albero di Natale nel 1943 anno in cui ci fu lo sbarco degli alleati angloamericani.
Noi italiani avevamo “solo” il presepe, una meravigliosa pagina del Vangelo.
Un mondo nel mondo, dove tutto è già stato e tutto è nuovo. Il palco di un teatro dove oltre la sacra rappresentazione si mescolano tanti racconti.
Ecco la lavandaia, l’acquafrescaia dietro il suo chiosco profumato di limoni, il pescivendolo, l’ortolano, gli zampognari, il carro di Ciccio, grassoccio e sorridente disteso sulle sue botti.
Non immaginereste mai che questo personaggio è una sopravvissuta divinità pagana, sì è proprio Bacco che cantando si reca ad adorare il Bambin Gesù!
Il presepe napoletano è: «Un documento, un tessuto che per sincretismo eredita già nell’ordito richiami esoterici e mistici e tutti i significati più lontani del Natale, anche quelli di memoria non cristiana» (Maria Orsini Natale, “Cieli di carta”).
Ogni cosa è una metafora: la grotta confine tra luce e buio è vittoria sull’angoscia delle tenebre; il fiume simbolo del tutto che scorre, vita e morte; l’acqua rigeneratrice e purificatrice; la tavola dell’osteria significa tradimento, ma anche aggregazione e fratellanza nel pasto in comune; il ponte è il passaggio per altri mondi sconosciuti come l’aldilà; la fontana incontri d’amore, ma anche apparizioni; il mulino è il tempo che scorre; la stella è un presagio.
Chi di noi non ha giocato con quei pastori, chi di noi non è rimasto incantato tra quei viottoli e casette di carta pesta …che magia che frastuono di genti!
È Natale tutto è pronto, l’albero scintilla, la corona dell’avvento ha acceso la sua ultima candela…

“Pastori silenzio!  Ninno (il bambino) sta nascendo!”.

Anny Pellecchia

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Copyright © Ugo Pellecchia & Il Floricultore

 

 


 
Loto, il fiore che avvicina al Nirvana

Nasce in condizioni estreme per trasformarsi in un simbolo di leggiadria. È amato dai maestri spirituali e qui dà vita a emozionanti intermittenze del cuore

Le mattine d’estate ai Mercato dei fiori di Castellammare sono particolarmente piacevoli, sono le 5 del mattino c’è già la luce, l’aria è fresca, i fiori estivi sono un inno alla bella stagione, la quantità di piante fiorite sono un invito ai futuri clienti a vivere al meglio balconi  e giardini!

Un fornitore mi chiama : «I fiori che piacevano a vostro padre sono arrivatia» e così dicendo alza in aria un fascio lunghissimo di steli racchiusi un cappuccio di foglia. Sorrido, è davvero estate, è proprio vero sono i fiori di Ugo Pellecchia, rispondo ridendo.

La stagione del fior di Loto è arrivata!

Li acquisto senza neanche chiedere il prezzo, qualunque esso sia li avrei comprati comunque, perché non compro solo un fascio di fior di Loto compro un fascio di ricordi…

Anni ’60-70, in negozio due volte a settimana mio padre andava in stazione a ritirare un cesto di canne stracolmo di fiori di Loto, le corolle erano ricoperte di giornali (per mantenere il grado di umidità). Liberati dalle carte non restava che sfogliarli. I bei petali rosa si schiudevano fra le mie piccole dita, mio padre era così entusiasta che nell’aria c’era sempre una sensazione di meraviglia e di energia positiva.

Era un fiore molto di moda all’epoca, non c’era salone in case importanti che non sfoggiasse un bel vaso con composizioni di fior di Loto.

La foglia gigantesca diventava un gioco per me bambina, mio padre faceva ruotare le gocce d’acqua all’interno che come per magia diventavano palline simili a biglie. «Sono piante che vivono sull’acqua -mi diceva- l’acqua non le bagna.»
Poi successe una cosa straordinaria, in un bellissimo giorno d’estate Cencio e Cecchina Gallamini di Lugo (Ravenna) furono nostri ospiti.

Cencio Gallamini per mio padre era un mito. Nel primo decennio del dopoguerra Vincenzo Gallamini (detto Cencio) di ritorno da un viaggio in Giappone, portò con sé alcune piante di Loto che pose in uno specchio d’acqua di ben due ettari. La pianta si adattò talmente bene che la famiglia Gallamini acquistò il lago per valorizzare le potenzialità naturali finalizzate anche ad impianti vivaistici.

Furono dei giorni meravigliosi, Cecchina era un ottima cuoca passava tutto il tempo in cucina con mia madre a cucinare i suoi piatti regionali e a scrivere ricette, Cencio invece era sempre con mio padre in giardino, contemplava estasiato la flora mediterranea e le piante esotiche.

E’ difficile descrivere la gioia di quei giorni, era un tempo dove vivere era empatia, donarsi per arricchire le proprie conoscenze non solo lavorative ma anche d’affetto. E quel grande affetto esplose proprio come un seme di loto quando Cecchina sapendo che io e mia sorella non avevamo conosciuto le nonne materne disse: «Chiamatemi nonna Cecchina».Cencio si adeguò col suo carattere più silenzioso a diventare Nonno Cencio!

Sono in negozio, quante cose sono cambiate, quell’Italia bella di cui ero spettatrice con occhi da bambina non c’è più, mio padre non è più in negozio, i clienti sono più distratti immersi sempre più in un mondo virtuale, a casa si sta poco, i fiori si acquistano frettolosamente, un fiore di Loto dura troppo poco per una società che mira all’eterna giovinezza e ha poca dimestichezza con la poesia e storie romantiche.
«Signora, nel mio paese questi si chiamano Nelù» – E’ la voce di Samara a riportami alla realtà; è il mio nuovo dipendente viene da Goa, non parla molto, ed io rispetto il suo silenzio non conoscendo la sua cultura. Nonostante il suo stentato italiano mi fa capire aprendo le braccia l’immensità dei Loto nella sua terra!

Che bello Samara, deve essere uno spettacolo l’India in fiore!

Nelù ripeto, che nome dolce, un nome perfetto di bimba bella, di principessa indiana!

Samara è buddista, è una persona gentile, molto laboriosa, il sorriso fa parte di lui.

L’essenza del buddismo in un fiore

E’ proprio questo Loto rosa ad otto foglie il trono sopra cui siede Buddha.
Tutta la filosofia buddista ruota intorno al Loto, un fiore che nasce dal fango, dai bui acquitrini che poi, grazie a un’energia che il pensiero buddista attribuisce alla volontà naturale delle piante produce un fogliame aereo sospeso sul pelo dell’acqua con l’apoteosi dello sbocciare del fiore. Un’ascesa in verticale verso la purificazione e il raggiungimento del nirvana dove nulla può più macchiare l’animo umano neanche l’acqua.

Il bel lago creato da Cencio di fior di Loto è ancora lì, le piante si sono moltiplicate, oggi la famiglia Gallamini l’ha donato alla città. Perché ogni uomo possa ricordarsi che vivere è un percorso di suolo, tenebre, acqua, aria, luce.

 

Anny Pellecchia

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Copyright © Ugo Pellecchia & Il Floricultore